Articolo ripreso da www.oukside.com, a questo link http://www.oukside.com/blog/fitness/item/vitamina-k-spiegazione-funzioni La vitamina K è stata giustamente soprannominata "vitamina cerotto", per il suo ruolo fondamentale nella coagulazione del sangue. È necessaria infatti per la formazione di 4 delle varie proteine che partecipano alla coagulazione del sangue, una delle quali è la protrombina. La lettera “K” non è altro che l’iniziale di una parola danese, koagulation, in quanto tale vitamina fu scoperta nel 1935 da uno scienziato danese, tale Henrik Dam, termine che esprime perfettamente la funzione più importante di questa vitamina: arginare le perdite di sangue dal nostro corpo in caso di ferite conseguenti a interventi chirurgici, traumi o varie patologie che causano per esempio lesioni della parete vascolare delle arterie causando delle emorragie. I diversi tipi di vitamina K Ad oggi si conoscono 3 tipi diversi di vitamina K: due di esse sono naturali e una terza è di origine sintetica. Abbiamo la K1 (chiamata anche fillochinone), e la K2 (detta menachinone) che sono quelle naturali, in quanto le troviamo negli alimenti oppure sono prodotte dai batteri del nostro intestino. Le verdure contengono vitamina K1, mentre gli alimenti animali come carne e formaggi contengono una miscela di K1 e K2 (vedi più avanti elenco degli alimenti con le più alte concentrazioni di vitamina K). Sia la K1 che la K2 sono vitamine dette liposolubili, cioè che possono essere assimilate nel nostro organismo esclusivamente attraverso sostanze di natura lipidica (grassi), e possono anche essere prodotte dall'organismo stesso nell'intestino, grazie all'azione di alcuni ceppi batterici specifici della nostra flora batterica intestinale. E abbiamo infine la K3 (detta menadione), che invece non esiste in natura ma viene prodotta sinteticamente in laboratorio e usata in medicina per varie terapie nel trattamento dei pazienti che non riescono ad assimilare e utilizzare la vitamina K naturale (cioè la K1 e la K2), per carenza di bile, una sostanza necessaria per l'assorbimento di tutte le vitamine liposolubili. La vitamina K3, al contrario delle altre due, non è liposolubile bensì è idrosolubile, appositamente progettata per essere veicolabile nell'organismo attraverso i liquidi organici, proprio perché mirata alla cura di persone che non hanno la capacità di utilizzare bene le vitamine liposolubili veicolate dai grassi. Tuttavia, mentre le forme di vitamina K che si trovano in natura non sono tossiche, anche se somministrate in alte dosi, la forma sintetica invece, che possiede soltanto il nucleo di base della vitamina K, può avere effetti nocivi sul corpo, se presa in forti dosi. La vitamina K è anche necessaria per la sintesi delle proteine ossee, quindi per la salute dell'intero tessuto scheletrico del nostro corpo, compresa la dentatura. La vitamina K infatti, assieme alla vitamina D, è coinvolta nella produzione di una proteina chiamata osteocalcina (1), la quale a sua volta è responsabile del deposito di calcio nelle ossa. Pertanto la vitamina K possiamo considerarla anche come una vitamina della longevità e della vitalità per le persone anziane, specialmente in chiave di potente agente anti-osteoporosi (2). Questa vitamina è implicata anche nella sintesi del glicogeno, una particolare forma di zuccheri che viene immagazzinata nelle cellule del fegato e dei muscoli, come riserva energetica. Una carenza di vitamina K può portare a malattie cardiache, ossa fragili, carie e cancro. Se una gran parte della vitamina K del nostro organismo proviene dai batteri intestinali, i livelli di vitamina K possono dipendere notevolmente dalla salute dell'intestino. Se l'intestino non è in salute, anche i livelli di vitamina K potrebbero diventare scarsi, specie se non si mangiano abbastanza verdure con la dieta. Alcuni studi hanno evidenziato una riduzione fino all'80% delle fratture in pazienti affetti da osteoporosi quando si assume un integratore di vitamina K2 (6). In sintesi il consumo di alimenti ricchi di vitamina K è in grado di supportare: • la salute cardiovascolare (cuore); • la densità ossea; • la salute dei denti; • la prevenzione del cancro; • una riduzione delle infezioni. La dose raccomandata giornaliera di vitamina K è di 120 mcg / giorno per gli uomini e 90 mcg / giorno per le donne. Altre differenze tra la vitamina K1 e la K2 Vitamina K1: la troviamo nei vegetali (soprattutto a foglia verde), questa forma va al fegato dopo l'assorbimento nell'intestino, aiuta ad avere una coagulazione ottimale. Questa forma di vitamina K è quella di cui hanno bisogno i neonati per scongiurare serie forme di sanguinamento. Inoltre è sempre la K1 che evita la calcificazione dei vasi sanguigni, permette alle ossa di trattenere il calcio e quindi mantenere una struttura ossea ottimale. Vitamina K2: i batteri intestinali producono questo tipo di vitamina. Ne troviamo dunque grandi quantità nel nostro intestino, ma sfortunatamente gran parte viene espulsa attraverso le feci. La K2 va direttamente nel sangue, nelle ossa e nei tessuti e organi diversi dal fegato. La vitamina K1 può essere convertita in K2 dall'organismo, però il processo di conversione è piuttosto difficoltoso per l'organismo e solitamente molto scarso. I benefici per la salute della vitamina K più in dettaglio Salute del cuore La vitamina K ha dimostrato di aiutare a prevenire la calcificazione delle arterie, una delle principali cause di attacchi di cuore. Funziona effettuando prelievi di calcio dalle arterie e non permettendo l'indurimento delle pareti arteriose (3, 4, 5). Salute delle ossa La vitamina K aumenta la quantità di una specifica proteina (osteocalcina) richiesta per mantenere il calcio nelle ossa, riducendo il rischio di osteoporosi. Alcuni studi sulla vitamina K hanno anche scoperto che un elevato consumo di vitamina K frena la perdita di minerali ossei nelle persone con osteoporosi (1, 2). Prevenzione del cancro La vitamina K ha dimostrato efficacia nel ridurre il rischio di cancro della prostata, colon, stomaco, polmoni e cancro orale. Uno studio ha anche trovato che alte dosi di vitamina K hanno aiutato i pazienti con cancro del fegato a stabilizzare e addirittura migliorare la loro funzione epatica. Alcuni studi hanno mostrato infatti che ottimizzando l'introito alimentare di vitamina K2 (ma non di K1), è stato possibile abbassare il rischio di cancro avanzato della prostata fino al 63%, mostrando dunque una associazione inversa tra assunzione di menachinone (K2) e cancro della prostata (7). Studi in vitro su cellule cancerose del polmone, hanno evidenziato come la somministrazione di vitamina K2 riesca a bloccare la crescita tumorale e distruggere le cellule tumorali già esistenti (8). Il trattamento con vitamina K2 si è dimostrato vincente nel indurre apoptosi cellulare delle cellule cancerose in pazienti affetti da leucemia e da mielodisplasie, ovvero da malattie del sangue causate dal danneggiamento di una delle cellule staminali presenti all'interno del midollo osseo (8). Malattie del cervello e patologie neurodegenerative (Alzheimer) La vitamina K2 è la forma principale di vitamina K che il cervello utilizza. E' stato scoperto che la forma MK-4 della vitamina K2 (esiste anche la forma MK- 7), rappresenta più del 98% del totale di vitamina K presente nel cervello (9). In definitiva dunque esistono degli studi che mostrano l'importanza della vitamina K anche nell'ambito del Sistema Nervoso. Conclusioni Una carenza di vitamina K2 viene riconosciuta di recente nella letteratura scientifica come forte causa diretta di danno endoteliale (calcificazione vascolare) e di osteoporosi. Una supplementazione dietetica di vitamina K appare come un efficace mezzo per contrastare l'insorgere di queste patologie, quindi sia attraverso un aumento diretto nella dieta di cibi contenenti la vitamina K, sia attraverso una integrazione a base di vit. K. Va messo in evidenza anche il fatto che praticare esercizio fisico in maniera regolare (specie contro resistenze, quindi con i pesi o ginnastica a corpo libero) costituisce un potente attivatore, modulatore e valorizzatore di tutti i processi di mantenimento della massa ossea e di decalcificazione arteriosa, ovvero dei processi legati in maniera specifica alle attività tipiche della vitamina K, della vitamina D e della omeostasi del calcio. Questo perché l'esercizio fisico stimola l'osso a rifornirsi di minerali con regolarità e dunque a rafforzare la propria matrice ossea proprio attraverso una maggiore richiesta di minerali come calcio, fosforo e magnesio. Una aumentata richiesta di questi minerali nelle sedi dell'apparato scheletrico e della dentatura costituirà una efficiente azione di prevenzione contro osteoporosi e patologie cardiovascolari legate ad indurimento dei vasi sanguigni e calcificazione della parete endoteliale. Nelle persone sedentarie, al netto del buono o cattivo stile alimentare, questi processi di rafforzamento dell'osso e di migliore salute dei vasi sanguigni risultano diminuiti e depotenziati per default. In conclusione è riportata una tabella con gli alimenti più ricchi di vitamina K1 (quella dei vegetali) e i loro contenuti in microgrammi per 100 g di prodotto. Gli alimenti sono inseriti in ordine decrescente di quantitativo, ovvero da quello che ne contiene di più a quello che ne ha di meno. Alimenti Contenuto di vitamina K
Riferimenti
1. Katarzyna Maresz, PhD Proper Calcium Use: Vitamin K2 as a Promoter of Bone and Cardiovascular Health. Integr Med (Encinitas). 2015. 2. Huang ZB, Wan SL, Lu YJ, Ning L, Liu C, Fan SW. Does vitamin K2 play a role in the prevention and treatment of osteoporosis for postmenopausal women: a meta-analysis of randomized controlled trials. Osteoporos Int. 2015. 3. Jensen, Lenninger, Ero, Benson - Consumption of nattokinase is associated with reduced blood pressure and von Willebrand factor, a cardiovascular risk marker: results from a randomized, double-blind, placebo-controlled, multicenter North American clinical trial. Integr Blood Press Control. 2016. 4. Gast GC, de Roos NM, Sluijs I, Bots ML, Beulens JW, Geleijnse JM, Witteman JC, Grobbee DE, Peeters PH, van der Schouw YT A high menaquinone intake reduces the incidence of coronary heart disease. Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2009. 5. Margueritta S. El Asmar, Joseph J. Naoum, and Elias J. Arbid Vitamin K Dependent Proteins and the Role of Vitamin K2 in the Modulation of Vascular Calcification: A Review. Oman Med J. 2014. 6. Kaneki M. Vitamin K2 as a protector of bone health and beyond. Clinical Calcium. 2005. 7. Nimptsch K, Rohrmann S, Linseisen J. Dietary intake of vitamin K and risk of prostate cancer in the Heidelberg cohort of the European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC-Heidelberg). Am J Clin Nutr. 2008. 8. Yoshida T, Miyazawa K, Kasuga I, Yokoyama T, Minemura K, Ustumi K, Aoshima M, Ohyashiki K. Apoptosis induction of vitamin K2 in lung carcinoma cell lines: the possibility of vitamin K2 therapy for lung cancer. Int J Oncol. 2003. 9. Guylaine Ferland Vitamin K and the Nervous System: An Overview of its Actions. Adv Nutr. 2012. Articolo ripreso da www.oukside.com, a questo link http://www.oukside.com/blog/fitness/item/vitamina-k-spiegazione-funzioni Articolo ripreso da www.oukside.com, a questo link http://www.oukside.com/blog/fitness/item/ampk-antiaging
Molto spesso utilizziamo il termine invecchiare, senza sapere a fondo di cosa stiamo parlando. considerando la vecchiaia una malattia. In realtà, essa è una condizione in cui si accumulano malfunzionamenti cellulari all’interno degli organi vitali. Questi malfunzionamenti indotti dall’invecchiamento sono inevitabili,ciò non vuol dire che non si possa agire per rallentarli. L’attivazione di specifiche molecole cellulari, prime tra tutte l’AMPK, permette l’aumento della longevità. È infatti in perenne crescita il numero di studi che indicano come l’AMPK possa rallentare i sintomi indotti dall’invecchiamento, aumentando dunque la longevità (1). Sembra dunque che aumentare l’attività di AMPK possa avere effetti benefici anche su sistemi singoli (organi, apparati) per combattere gli effetti dell’età. Ma entriamo nel concreto: cos’è l’AMPK, come agisce, e cosa possiamo fare per farla attivare efficacemente. Cos’è e come agisce l’AMPK AMPK è l’acronimo di adenosine monophospate-activated protein kinase, che in Italiano sta per proteina kinasi dipendente dall’adenosina monofosfato. Se pensavate che la traduzione vi potesse aiutare, vi sbagliavate. Non preoccupatevi, ad essere importante non è il suo nome ma i ruoli che svolge all’interno della cellula. Non a caso l’AMPK viene considerata il controllore master del metabolismo cellulare (2). Perché? Perché è in grado di “sentire”, momento per momento, i cambiamenti energetici cellulari (intesi come scorte endogene e come flusso attraverso la cellula) e rispondere di conseguenza. State facendo attività fisica? L’ATP vi dà energia producendo AMP e attivando AMPK che “ordina” alla cellula di produrre nuova ATP (a partire da aminoacidi, glicogeno, acidi grassi). Quindi, l’attivazione dell’AMPK aumenta l’ossidazione dei grassi e il trasporto di glucosio attraverso la cellula (per intenderci, l’AMPK è un bersaglio della metformina, il farmaco utilizzato nel diabete di tipo 2 per far sì che le cellule captino il glucosio dal torrente sanguigno). È chiaro che l’AMPK giochi un ruolo determinante nel dimagrimento e nel mantenimento di una buona flessibilità metabolica (la capacità dell’organismo di ossidare efficacemente i grassi nel momento del bisogno), ma qui parliamo di invecchiamento: come si correla l’AMPK all’invecchiamento? Oltre a controllare l’energia cellulare e agire di conseguenza per ripristinarla o fare in modo che sia utilizzata, l’AMPK promuove il fenomeno dell’autofagia, la morte cellulare programmata (3). Con questo processo la cellula ricicla il suo contenuto, eliminando il DNA danneggiato e le proteine formatesi male (4), quindi fornendo protezione dall’invecchiamento e i tumori. Noi abitanti del mondo occidentale ci stiamo pian piano conducendo a una morte precoce tramite la costante inibizione dell’AMPK dovuta alla sovralimentazione, specie di alimenti industriali e carboidrati raffinati. La soppressione di AMPK porta ad accumuli adiposi, resistenza insulinca, dislipidemia e infiammazione: insomma, problemi comuni che vediamo ogni giorno. Promuovere la longevità attraverso l’attivazione dell’AMPK Tramite dieta, esercizio fisico, e integratori selezionati possiamo contrastare l’invecchiamento aumentando l’attività dell’AMPK. A sostegno di questo ci vengono incontro studi sugli effetti della metformina nei confronti della longevità. La metformina è il farmaco utilizzato per il trattamento del diabete di tipo 2. Come già accennato, attiva AMPK migliorando la captazione di glucosio da parte delle cellule. Ma che effetti ha sulla longevità? Diversi esperimenti hanno mostrato un effetto positivo della metformina nei confronti di invecchiamento e longevità (5). Cos’altro comporta una attivazione dell’AMPK? L’aumento della biogenesi mitocondriale o mitocondriogenesi (6). Il che vuol dire avere mitocondri più giovani e quindi più funzionali, che metabolizzano più efficientemente i nutrienti e permettono salute e forma fisica, nonché si associano all’aumento della longevità (7). AMPK attiva a sua volta une classe di enzimi appartenenti alle Sirtuine (SIRT). Queste sono attivate dalla restrizione calorica, che sappiamo aumenta la longevità in diverse specie animali. L’effetto di SIRT è potenziato dall’AMPK: va da sé che questa “rete” abbia effetti importanti sull’invecchiamento (8). L’AMPK è anche in grado di ridurre l’infiammazione tramite l’azione sui regolatori NF-kappaB (9). Poiché l’infiammazione riduce le aspettative di vita, questo è un altro meccanismo tramite cui l’AMPK contrasta gli effetti dell’invecchiamento. L’AMPK influenza diversi aspetti della salute Abbiamo visto che l’AMPK contrasta l’invecchiamento e aumenta l’utilizzo della scorte energetiche, inducendo la formazione di nuovi mitocondri, e riducendo l’infiammazione. Ma l’AMPK svolge numerose altre azioni benefiche all’interno di molti sistemi organici. Sistema immunitario Checché se ne parli poco, l’AMPK ha una azione fondamentale nella modulazione della risposta immunitaria, migliorando la migrazione dei globuli bianchi nelle sedi in cui c’è ne è bisogno (10) e inibendo l’azione di alcuni virus diminuendo la disponibilità di acidi grassi che essi possono utilizzare per replicarsi (11). Sviluppo di tumori L’attivazione dell’AMPK è positiva anche in merito alla prevenzione dell’insorgenza di tumori, in quanto l’AMPK (12):
Malattie cardiovascolari e aterosclerosi L’AMPK regola il metabolismo lipidico e delle lipoproteine, per cui gioca un ruolo fondamentale anche nelle malattie cardiovascolari. L’attivazione dell’AMPK ha dei benefici in tal senso tramite la “protezione” delle cellule dallo stress ossidativo (13) e modulando gli effetti dell’angiotensina II (14), sostanza che aumenta la ritenzione di sodio e acqua. Sindrome metabolica e diabete L’attivazione dell’AMPK migliora la sensibilità all’insulina tramite la riduzione dell’infiammazione, l’aumento dell’utilizzo di glucosio da parte delle cellule e la soppressione dell’uscita di glucosio a partire dal glicogeno epatico; inoltre, come già accennato, l’AMPK aumenta il metabolismo lipidico e la salute metabolica sistemica inducendo perdita di peso con miglioramenti sulla salute in generale (2). Problemi epatici Aspetto fondamentale per quanto riguarda la salute del fegato è che l’AMPK migliora la funzionalità dei mitocondri aumentando l’ossidazione degli acidi grassi, con conseguenze positive sulle epatopatie (15). Come attivare AMPK in maniera naturale Come emerge da diverse evidenze scientifiche analizzate, è importante mantenere elevata l’attivazione dell’AMPK. Questo può essere ottenuto in diversi modi: migliorando la propria dieta, facendo attività fisica regolare, e assumendo integratori specifici. Purtroppo, non si può puntare solo a “fare la dieta” e assumere dei “bruciagrassi” pensando di migliorare il proprio stato di forma e salute: è importante fare attività fisica, includendo anche allenamento anaerobico con i pesi, per dare un forte stimolo all’attivazione dell’AMPK (16). Ad ogni modo, combinando una restrizione energetica (o il digiuno intermittente), la giusta dose di attività fisica e integratori specifici, si possono ottenere notevoli benefici. Dieta ed esercizio sono ampiamente discussi in numerosi articoli, ma che dire dell’integrazione? Molto spesso ci si basa su integratori “precostituiti”, pubblicizzati dalle varie ditte come promotori di particolari effetti: “abbassano il colesterolo, riducono l’assorbimento dei grassi, migliorano la sensibilità insulinica”, e così via. La verità è che la scelta degli integratori dovrebbe basarsi sullo studio degli effetti biochimici della singola sostanza all’interno dell’organismo. È chiaro che la chiave dei miglioramenti fisici e salutistici e l’aumento della longevità sia l’attivazione dell’AMPK, va da sé che la nostra scelta debba cadere su tutte quelle sostanze che riescano ad attivarla senza effetti collaterali troppo scomodi. Quali sono queste sostanze? Citandone alcune: Capsaicina, curcumina, cinnamaldeide (cannella), epigallocatechin gallato (EGCG, estratto di tè verde), e molte altre, sono attivatori dell’AMPK che aiutano a bruciare i grassi e tenere a bada il grasso corporeo, migliorando la salute generale e contrastando l’invecchiamento. Riferimenti
Articolo ripreso da www.oukside.com, a questo link http://www.oukside.com/blog/fitness/item/ampk-antiaging Articolo ripreso da www.oukside.com, a questo link http://www.oukside.com/blog/fitness/item/succhi-di-frutta Articolo di Wanda Rizza Considerati innocui e leggeri, i succhi di frutta non sono bevande salutari come il food marketing vorrebbe farci credere. È vero, sono spesso presenti in frigorifero e, ahimè, nel cestino della merenda di quasi tutti i bambini, ma questo articolo vi spiegherà perché è meglio non comprarli più o addirittura vi farà passare la voglia di comprarli Identikit e legislazione Iniziamo con qualche definizione, noiosa ma necessaria. La classificazione merceologica dei succhi di frutta è riportata nel Decreto Legislativo n. 20 del 19.02.2014 dal quale si evincono le differenze tra “Succo di frutta”, “Succo di frutta da concentrato”, “Succo di frutta concentrato”, “Succo di frutta estratto con acqua” e “Nettare di frutta”. Come si può intuire, la classificazione è molto dettagliata, e di conseguenza le definizioni presenti sulle confezioni si riferiscono a prodotti diversi tra loro. Il termine “Succo di frutta”, infatti, si riferisce alle bevande a base di sola frutta, e può essere naturale o ricostituito da concentrato, mentre “Nettare di frutta” è la poetica definizione usata per le bevande composte da una minore percentuale di frutta (25-50%) e acqua, con eventuale aggiunta di zucchero o miele. Nei succhi, inoltre, è autorizzata la miscelazione di succo e purea o di concentrato e purea. In tutti i casi, la legge prevede una lista di additivi e trattamenti autorizzati nella produzione di queste bevande. Categoria a parte è quella che include tutte le “bevande alla frutta” o “al gusto di frutta”, in cui la percentuale di frutta è ancora più bassa (12-15%) Inoltre, il provvedimento denominato “attuazione della Direttiva 2012/12/UE che modifica la Direttiva 2001/112/CE concernente i succhi di frutta e altri prodotti analoghi destinati all’alimentazione umana” e pubblicato nel 2014 nella Gazzetta Ufficiale n. 57, ha migliorato il decreto precedente vietando l’aggiunta di zucchero o di edulcoranti nei succhi di frutta, e costringendo le aziende produttrici a non poter adoperare diciture quali “senza zuccheri aggiunti” e simili nella commercializzazione di questi prodotti, sia nella pubblicità sia in etichetta. Nello specifico, la dicitura “senza zuccheri aggiunti” ormai può essere usata solo per i nettari di frutta che non contengono monosaccaridi o disaccaridi aggiunti né, ovviamente, edulcoranti. In questi casi si può aggiungere il claim “contiene naturalmente zuccheri”. Questi accorgimenti derivano dall’applicazione del provvedimento base sui claims nutrizionali in relazione alla salute (Regolamento CE 1924/2006), riguardante “ogni informazione, messaggio stampato/raffigurato oppure audio e/o video che suggerisca o sottolinei caratteristiche possedute da un alimento”, nato per impedire l’utilizzo di claims nutrizionali inappropriati e soprattutto non rispondenti a verità. A tale scopo, conoscere meglio la legislazione riguardante le materie prime utilizzate per la produzione dei succhi di frutta può essere d’aiuto per fare ulteriore chiarezza. Queste informazioni sono contenute nell’Allegato 2 del D.L. 20/2014. 100% polpa di frutta? Senza dilungarci oltre sugli aspetti burocratici, cerchiamo di capire perché termini quali “puro”, “naturale”, “light”, “100% polpa” e simili, non siano altro che stratagemmi adottati dal marketing per aggirare il consumatore. Per esempio, quando leggiamo “50% polpa di pesca”, non significa che il 50% di succo sia effettivamente costituito dalla polpa del frutto, bensì si tratta di un 10-15% di concentrato al quale è stata aggiunta una quantità X di acqua per ricostituirlo, raggiungendo così il fatidico 50%. E lo stesso discorso vale per tutte le percentuali, con proporzioni diverse in base al contenuto di polpa e acqua di partenza, diverso per ciascun frutto. Purtroppo, il bombardamento pubblicitario fatto di illusori messaggi salutistici convince spesso i consumatori che un bicchiere di succo di frutta equivalga o sia addirittura meglio di un frutto fresco. Ma questo liquido colorato può davvero sostituire una mela o una pera? L’analisi nutrizionale ci fornisce la risposta. Il profilo nutrizionale Anche il succo più “naturale” e con la maggiore percentuale di polpa di frutta apporta esclusivamente acqua, zuccheri semplici e additivi - cioè acido citrico, aromi (soprattutto anidride solforosa), chiarificanti e acido ascorbico -, necessari per garantire una buona shelf-life al prodotto. La vitamina C, sia chiaro, viene aggiunta per preservare il colore del succo grazie alla sua azione anti-ossidante, ma non vi aggiunge alcun valore nutrizionale. A differenza della frutta fresca, inoltre, i succhi di frutta non contengono neppure un grammo di fibra alimentare (per l’esattezza, in molte etichette troverete 0,3-0,8 g/100 mL), per non parlare di enzimi, minerali e vitamine (se non i pochi mg di vitamine A, C, E aggiunti all’omonimo succo). Tutti i micronutrienti e gli enzimi contenuti nella frutta, infatti, vengono persi nel trattamento termico ad alta temperatura che ha luogo nelle prime fasi di produzione. Il contenuto energetico finale, quindi, è elevato ma sbilanciato: un succo di frutta apporta calorie solo in forma di zuccheri, e in certi casi anche più di altre bibite zuccherate o gassate. Peccato che il danno non sia solo questo. C’è molto di più. Quasi dimenticavo, la frutta di partenza è quella di peggiore qualità, derivante dagli scarti del consumo fresco. Conseguenze metaboliche La concentrazione zuccherina dei succhi di frutta li rende estremamente dolci, e ciò fa sì che anche un solo bicchiere sia in grado di innescare una risposta metabolica non indifferente. In primis, la facilità di assorbimento degli zuccheri contenuti in qualsiasi succo di frutta determina un repentino aumento della glicemia, e ciò stimola il pancreas a secernere l’insulina necessaria per favorire l’ingresso di glucosio nelle cellule e per riportare, quindi, la glicemia entro il valore fisiologico. Naturalmente, lo stimolo pancreatico è proporzionale all’innalzamento glicemico. Questo avviene specialmente a stomaco vuoto, ma l’effetto è altrettanto importante anche quando il succo di frutta è assunto con altri alimenti glucidici (il classico bicchierone di succo d’arancia con pancarrè e marmellata). Fin qui, niente di strano. Si sa, infatti, che l’assunzione di carboidrati innesca questo meccanismo, e qualsiasi organismo sano può tranquillamente compensare il picco glicemico con una certa efficacia (non sempre per la gioia del pancreas, sì per quella del grasso corporeo). Il discorso cambia, però, per le persone diabetiche: in questi casi, lo sforzo richiesto al pancreas è nettamente superiore, e può accelerarne la riduzione della funzionalità. Non solo, anche nei bambini, nelle persone sovrappeso, obese, con sindrome metabolica o altre patologie correlate al metabolismo - e in tutti quei casi in cui vi sia familiarità per queste condizioni -, l’assunzione frequente di zuccheri semplici predispone o contribuisce al peggioramento della funzionalità pancreatica, favorendo l'insorgenza di iperinsulinismo, insulino-resistenza e iperglicemia, tutti ottimi presupposti per lo sviluppo del diabete. Le conseguenze di queste alterazioni metaboliche, inoltre, non si limitano al solo metabolismo glucidico, bensì possono estendersi a tutto l’organismo e favorire l’insorgenza di malattie multifattoriali. Per esempio, una dieta ricca in zuccheri semplici andrebbe accuratamente evitata in presenza di dislipidemia e/o rischio cardiovascolare, in quanto gli zuccheri in eccesso determinano l’aumento della trigliceridemia, favoriscono l’ossidazione delle proteine in circolo e alterano il metabolismo lipoproteico, determinando in particolare l’aumento delle sd-LDL (lipoproteine piccole e dense predisposte all’ossidazione, che oltrepassano facilmente l’endotelio vascolare e concorrono alla formazione delle placche ateromatose) (1-3). Sugar addiction o dipendenza da zuccheri C’è poi un altro aspetto da prendere in seria considerazione, e cioè l’effetto degli zuccheri a livello cerebrale. In altre parole, la loro capacità di creare dipendenza. Naturalmente, questo discorso può essere esteso a molti altri alimenti glucidici (vedi merendine, snack confezionati e tutta la categoria di crackers & prodotti da forno, oggetto della food review sui cracker), ma in questo caso cade proprio a fagiolo, vista la “purezza” e pronta disponibilità degli zuccheri contenuti nei succhi di frutta. Come si innesca questo meccanismo di dipendenza? L’ingestione di zucchero ha un forte impatto sul nucleus accumbens, un’area del nostro cervello coinvolta nei meccanismi di ricompensa e apprendimento. Il segnale inviato dallo zucchero a tale nucleo, in particolare, attiva una via nota come reward pathway, in cui il neurotrasmettitore coinvolto, la dopamina, è la molecola responsabile della sensazione di piacere e gratificazione che si traduce nel desiderio di ripetere l’esperienza (4). Questa via, di per sé fisiologica, è attivata da stimoli che gratificano e soddisfano, come l’assunzione di un cibo che piace, l’ascolto di buona musica, il sesso o l’uso di sostanze stupefacenti. Il problema è che gli zuccheri (a differenza di altri nutrienti e, viceversa, in modo simile ad alcune sostanze stupefacenti) fungono da “superstimoli” nei confronti della secrezione dopaminergica, e di conseguenza questo neurotrasmettitore invade il nucleus accumbens con ritmo e intensità tali da far andare il sistema in iperattività ed i recettori dopaminergici in tilt (5). Questo si traduce nello stimolo ad assumere altro zucchero, azione che a sua volta rinforza il meccanismo di reward, ed ecco che il cervello ne chiede ancora, e ancora, e ancora (6). La soglia da superare per provare piacere si alza sempre di più, e ciò favorisce l’avvio della dipendenza (o addiction). L’addiction, a sua volta, dà origine al craving (letteralmente “provare una voglia matta di”), comportamento che descrive molto bene il bisogno incontrollato di mangiare cibi ricchi di zucchero (o di assumere una determinata sostanza), soprattutto dopo un periodo di astinenza. Per capire l’entità di tale fenomeno, basti sapere che l’effetto del meccanismo innescato dagli zuccheri, sia naturali sia artificiali, può essere più potente di quello attribuito alle classiche sostanze d’abuso (eroina, cocaina, nicotina e altre), come è stato dimostrato in molti studi sui topi (6-9). Quanto detto finora, quindi, deve far riflettere sul fatto che assumere zucchero tutti i giorni, soprattutto in forme altamente disponibili, può predisporre i recettori della dopamina al malfunzionamento, favorendo l’instaurarsi di addiction e cravings, con tutte le conseguenze precedentemente accennate. Naturalmente, la fonte alimentare ha una sua importanza, e alcuni ipotizzano che più gli zuccheri siano raffinati e artificiali, maggiore possa essere l’effetto in termini di dipendenza. Ma ciò non significa che lo zucchero “naturale” sia da ritenersi innocuo. Sempre zucchero è. Nel caso specifico dei succhi di frutta, come abbiamo visto in precedenza, questi possono contenere zuccheri sia naturali sia aggiunti (saccarosio e sciroppo di fruttosio), e dunque la domanda sorge spontanea: “quelli senza zuccheri aggiunti sono meno dannosi?” Purtroppo no, il discorso è lo stesso! Si tratta comunque di bevande zuccherine per la presenza degli zuccheri della frutta. Infine, nei succhi dolcificati artificialmente (con aspartame o altri dolcificanti chimici), il segnale che arriva al cervello è comunque percepito come “assunzione di qualcosa di dolce”, quindi l’effetto in termini di dipendenza si presuppone essere lo stesso (se non peggiore, visto l’abuso che si fa di bevande di questo tipo, perché “tanto sono light”). Insomma, non tentate di fregare il vostro corpo. Perché i succhi di frutta non sono indispensabili Per concludere, ricapitoliamo i motivi per cui il consumo di succhi di frutta non sia soltanto inutile, ma anche dannoso.
Riferimenti
Articolo ripreso da www.oukside.com, a questo link http://www.oukside.com/blog/fitness/item/succhi-di-frutta Il core addominale: la dieta, l’allenamento e il buon senso
Fare gli addominali: considerazioni iniziali ed esperienze personali Se un non addetto ai lavori cerca su Google “esercizi per gli addominali” o “esercizi per avere la pancia piatta” o “fare gli addominali fa dimagrire” è facile che cada in fraintendimenti, pensando che quegli esercizi si traducano in un ovvio e consequenziale dimagrimento focalizzato sulla fascia addominale. Il problema più grosso è quando certe cose vengono predicate e fatte praticare in una sala pesi, luogo in cui ignari frequentatori vengono sottoposti dal personale “competente” ai più svariati esercizi di contorsionismo (crunch su panche, con cuscini, su fitball e bosu; torsioni del busto con bastoni, dischi, elastici e kettlebell) per interminabili sessioni di addominali. Quindi vi consiglio, in prima istanza, di diffidare da chi vi ammazza di esercizi “per l’addome”. Come spiegherò in seguito è fondamentale avere compattezza e controllo del core addominale, quindi imparare a muoversi. Altro punto che analizzeremo è la giusta alimentazione per perdere grasso sulla pancia, cercando di spiegare in due parole perché… non esiste! Dimagrimento localizzato sull’addome: dal punto di vista fisiologico Esistono zone del nostro corpo che proprio non vogliono saperne di liberarsi del grasso in eccesso, il quale viene denominato proprio per questo motivo grasso ostinato. L’addome è tra quelle più “antiestetiche”, che crea disagio anche da un punto di vista psicologico. Molto dipende anche dal sesso (fianchi e glutei nelle donne ad esempio), dall’età, da fattori ormonali e metabolici. Per capire meglio il problema analizziamo prima di tutto il nostro adipocita, la cellula che accumula grasso: la sua biologia ci mostrerà come è possibile determinare una perdita più o meno localizzata di grasso e quali sono le difficoltà di questo processo. Nel nostro organismo abbiamo diversi tipi di adipociti. Quelli che ci interessano adesso, gli adipociti bianchi, hanno una peculiare espressione recettoriale, in particolare per quanto riguarda i recettori adrenergici, implicati con la regolazione della lipolisi (il consumo di grasso da parte di queste cellule per produrre energia). Tra questi recettori i beta-2 adrenergici sono quelli che favoriscono la lipolisi, mentre gli alpha-2 la inibiscono. Ecco che in base alla predominanza di uno o l’altro recettore sulla superficie della cellule di diverse parti del nostro corpo, si determina la predisposizione a perdere grasso sulla pancia o ad accumularlo. Un esempio è ciò accade nel sesso femminile: l’assetto ormonale (in particolare gli estrogeni) determina una maggiore espressione di recettori alpha-2 a livello di cosce, glutei e fianchi. Senza entrare nei dettagli biochimico-fisiologici basta spulciare in letteratura per trovare moltissimi studi che sfatano il mito del dimagrimento localizzato. In questo (Are blood flow and lipolysis in subcutaneous adipose tissue influenced by contractions in adjacent muscles in humans?) lavoro gli studiosi si sono chiesti se il tessuto adiposo sottocutaneo sovrastante un’area sottoposta a esercizio (anche intenso) incentivasse la lipolisi. I dati hanno mostrato come, sebbene il flusso sanguigno in quella zona aumentasse, e insieme ad esso la lipolisi, quantitativamente si parlava di milligrammi di tessuto adiposo “bruciato”. Per farla breve: per avere un effetto lipolitico rilevante in questo senso servirebbero almeno centinaia di anni di allenamento a quel ritmo. Sarebbe il caso di trovare qualcosa di più pratico? Allenare gli addominali: uno studio Un altro studio (The effect of abdominal exercise on abdominal fat) ci mostra come soggetti che allenavano intensamente gli addominali non avevano una perdita di grasso maggiore se messi a confronto con un gruppo che non li allenava direttamente. I soggetti venivano mantenuti in dieta isocalorica durante tutto lo studio, quindi già intuitivamente si capisce come il dispendio energetico durante l’attività sia pressoché ininfluente, se l’introito energetico rimane lo stesso. Quello che dobbiamo ottenere, se ci interessa consumare grasso, è il dispendio energetico durante tutta la giornata e quindi sul lungo periodo. La quantità di calorie bruciate durante una sessione di addominali è del tutto inifluente se il nostro obiettivo è il dimagrimento, soprattutto se localizzato. Aggiungiamo il fatto che queste calorie bruciate non arriveranno dal grasso quasi per niente, ma principalmente da glicogeno muscolare… Per questo, quando allenate gli addominali, dovreste prima di tutto pensare ad allenarvi bene, con le giuste intensità e volumi, prima di tutto globalmente, pensando all’intero sistema e a generare una risposta che determini un aumento del consumo energetico a riposo: è appunto a riposo che si ha il maggior utilizzano di acidi grassi, qualora si abbia un efficiente metabolismo, a scopo energetico. Come allenare bene gli addominali? Nello studio citato nel precedente paragrafo ho parlato di proposito di allenare direttamente gli addominali. Bisogna tener conto, anche se dovrebbe risultare intuitivo, che il core addominale viene sempre reclutato e quindi allenato a dovere, purché ci si sappia muovere bene durante un allenamento. I muscoli del core sono deputati alla stazione eretta, ausiliari della respirazione e alla protezione dei visceri, quindi praticamente sempre chiamati in causa durante una seduta di allenamento. Ma evitiamo di arrivare agli estremi, ossia di pensare che non vada loro dato uno specifico occhio di riguardo in allenamento. Il consiglio è di non sfinirli sicuramente all’inizio della nostra routine, in modo che svolgano il loro lavoro funzionale durante l’esecuzione degli altri esercizi, soprattutto i multiarticolari, dove la respirazione, la postura e la tecnica sono essenziali per la performance e per la sicurezza. E di dare molto spazio ad esercizi di isometria, in cui si genera forza e che coinvolga il distretto in maniera globale. Voglio comunque fornire degli esempi pratici fermo restando che, come in ogni contesto di allenamento, è essenziale individualizzare anche l’allenamento del core. Esercizi per gli addominali per principianti Essenziale imparare a rendere “un unico blocco” il core, quindi evitare inizialmente esercizi di flessione del busto se non altro per un fattore importantissimo e spesso poco considerato: chi ha un un core debole tende a flettersi, nei cruch e affini, reclutando principalmente i flessori di anca e sovraccaricando i flessori del capo e del collo; da qui anche il rischio di peggiorare eventuali problemi posturali. Sconsigliati anche gli esercizi di torsione del busto: non mi dilungo su questo punto; semplicemente sono esercizi potenzialmente molto dannosi e inutili, senza riserve. Lavoreremo principalmente con esercizi isometrici, attraverso i quali si genera forza in maniera ottimale: Plank, Hollow Positon (QUESTO LO EMBEDDO, ND BEN) (focalizzandoci sulla posizione del bacino e del tronco) e soprattutto esercizi di respirazione diaframmatica. Quest’ultimo punto è essenziale anche per migliorare l’esecuzione e la sicurezza nei fondamentali multiarticolari con bilanciere. Serie e ripetizioni: allenate il core a fine seduta, 1-2 esercizi per 3-4 serie mantenendo la posizione corretta per il massimo del tempo possibile. Esercizi per gli addominali per intermedi Una persona che ha coscienza e una buona compattezza dei muscoli addominali può implementare nella propria routine esercizi dinamici via via sempre più complessi. Consiglio di evitare i sovraccarichi, almeno in larga parte, ma procedere per propedeutiche sempre più complesse a corpo libero: lavorare sul gesto anche qui è la chiave per sviluppare non solo la “tartaruga” ma reclutare anche altri distretti corporei in sinergia con il core. Il consiglio è di iniziare a lavorare su esercizi come i Leg Raises alla sbarra, le varianti di L-sit, lavorare in flessione anche su fitball oppure progredendo in uno degli esercizi che reputo migliori in assoluto: l’Ab Wheel. Concentratevi su un massimo di 2-3 esercizi per lo stesso numero di serie. Il consiglio sulle progressioni è di passare alla figura successiva quando si riesce a tenere una skill per almeno 15-20’’ oppure quando si riescono a fare più di 10-12 ripetizioni (sempre pulite!) in esercizi dinamici. Se si vuole lavorare a “circuito” o mettere insieme vari esercizi per uno stimolo diverso, il consiglio è quello di far susseguire serie da 2 o 3 esercizi consecutivi, alternando esercizi dinamici a posizioni isometriche. Per le caratteristiche delle fibre dei muscoli in esame i recuperi dovrebbero essere particolarmente brevi per esercizi dinamici (meno di 1’) e possono allungarsi negli esercizi di statica, per il diverso impegno che ne deriva. Esercizi avanzati per gli addominali In atleti più avanzati, che hanno appreso anche varie skill a corpo libero, il consiglio è di approcciarsi, se si vuole, anche a figure del calisthenics alla sbarra, agli anelli o a terra. Questo può risultare profittevole addirittura da un punto di vista di stimolo: imparare qualcosa di nuovo, in ogni caso, motiva l’atleta. Ovviamente qui vige in maniera preponderante la questione della specializzazione o della specificità; un atleta avanzato saprà da sé (o tramite chi lo segue) cosa e come fare per migliorare e lavorare sui punti carenti. “Ma io mangio bene per gli addominali” Potremmo inserire tantissimi altri punti cardine per cui non si riesce ad ottenere la tanto agognata tartaruga, ma voglio concludere riflettendo su una frase che si sente fin troppo spesso. Mangiare bene non significa nulla, perché non esiste né la dieta per scolpire gli addominali né tanto meno una dieta che vada bene alla stessa persona in momenti diversi della propria vita o in tutte le fasi del suo percorso di dimagrimento, ricomposizione, aumento di massa muscolare. Anche qui cito un’altra famosissima frase: “gli addominali si fanno a tavola”. Questo non deve essere interpretato, come capita spesso, come ossessione, eccessiva rigidità nei confronti del cibo, nella scelte alimentari. Per perdere grasso e avere addominali in vista abbiamo bisogno di un connubio perfetto tra dieta e allenamento, che essi siano dinamici, adattati perfettamente al soggetto e seguano una logica sia teorica che pratica. Anche qui nessuna formula magica: molto più spesso si parla del semplice deficit calorico per perdere peso e grasso. Peccato che il più delle volte questo non funzioni, altrimenti per essere definiti sarebbe bastato semplicemente fare qualche calcolo e ridurre l’assunzione di cibo affidandosi alle tanto amate app “contamacros”. A fare la differenza è l’atto decisionale: sapere quando cambiare e cosa cambiare all’interno del percorso che si sta seguendo è la chiave per raggiungere i propri obiettivi. Fonte: http://www.vivereinforma.it/fare-gli-addominali-dimagrire/ Il digiuno, da vocabolario è inteso come: “astensione totale o parziale dagli alimenti, sia volontaria (per es. come forma di protesta non violenta), sia in osservanza di un precetto religioso o di una prescrizione medica“. È presentato in ambito mediatico nelle più varie forme: dal digiuno curativo, alla dieta del digiuno e sue varie forme come ad esempio la dieta del digiuno serale fino al digiuno intermittente variante che sarà tema centrale dell’articolo. Digiuno intermittente L’interrogativo che assilla i praticanti degli approcci a digiuno intermittente o intermittent fasting è quali alimenti o integratori possono essere assunti durante le varie fasi del digiuno e se questi lo interrompano o ne vanifichino gli effetti. La lecita interrogazione trova le sue risposte tra le righe del funzionamento del metabolismo umano, nel quale ci addentreremo cercando il responso che soddisfi il nostro quesito. Che cos’è il digiuno: pro e contro In ambito di salute, benessere, fitness, allenamento, clinica e chi più ne ha più ne metta, ciò che interessa sono gli effetti metabolici del digiuno (e le sue varianti). Citando l’autore statunitense Lyle McDonald che definiva nel libro The Rapid Fat Loss Handbook la dieta come un digiuno, ma meno drastico si può già intendere che è possibile individuare un filo conduttore tra le basi fisiologiche e metaboliche in risposta a regimi ipocalorici e al digiuno. Chiaramente poi saranno tempistiche ed intensità alla quale si verificheranno le risposte ad uno o all’altro approccio. Questo razionale si riflette anche nel Minnesota Semistarvation Study di Ancel Keys (lo stesso della Dieta Mediterranea e del “Seven countries study”). Nel suo esperimento l’Autore esplorava gli effetti a livello biologico, psicologico e sociale, del digiuno sulle persone. Tutto il mondo della Ricerca parla di “digiuno“, ma a quanto ammontava l’introito energetico dei pazienti di Keys e colleghi? 1800 calorie al giorno, per 6 mesi. I Ricercatori considerano digiuno ciò che oggi molte ragazze e molti ragazzi pensano siano introiti che facciano ingrassare. Digiuno reale VS metabolico: il digiuno intermittente Come si fa a considerare digiuno un’alimentazione che apporta 1800 calorie giornaliere? Per molti significa comunque mangiare una quantità di cibo con la quale molte persone potrebbero ingrassare. Cosa non torna? La nostra cognizione di digiuno ci porta a pensare il digiuno come una totale astensione da cibo e a volte anche liquidi, quando concentrandoci sugli effetti metabolici del digiuno, si possono intravedere delinearsi diverse possibilità. Analizzando dove vanno ad agire i vari farmaci antitumorali o antidiabetici o anticolesterolo si può vedere come questi agiscono su vie metaboliche attivate anche in condizioni di digiuno. In particolare vi chiedo di soffermarvi sull’immagine che riporto qui sotto (che a breve verrà spiegata): A sinistra si osservano fattori “catabolici” (ricavano energia a partire da molecole più complesse, carboidrati, grassi e proteine), a destra quelli “anabolici” (creano molecole complesse avendo a disposizione energia e molecole più semplici). In soldoni i fattori a sinistra sono quelli implicati nel dimagrimento e nella perdita di peso, mentre quelli a destra sono quelli responsabili dell’accumulo di grasso e di peso. Al nostro scopo viene utile scoprire e sapere che l’attivazione dei fattori a sinistra simula il digiuno. In che modo? La cellula funziona in risposta ai segnali e non percepisce se stiamo introducendo qualcosa in bocca, bensì “sente” solo il segnale molecolare. Il funzionamento è simile a quello di un termostato di un condizionatore: è settato a 20°C e nella stanza ce ne sono 17°C, ma se avvicino un phon al sensore, attiverò il condizionatore. Ritornando all’immagine si può osservare come gli stimoli “Calorie restriction”, “Ketogenic diet”, “CHO restriction” innescano tutti la stessa risposta metabolica infatti hanno tutti e tre hanno effetti simili e attivano i fattori a sinistra. A destra troviamo invece “Protein restriction”, che come potete osservare dalla linea spezzata, inibisce i fattori anabolici (di “costruzione”) e interagisce anche con ciò che c’è a destra. Cosa ci comunica l’immagine in ultima analisi? Se io faccio “sentire” alla cellula che sono attivi i fattori a sinistra lo stato metabolico ed energetico attivato sarà quello del digiuno. Il che vuol dire che se introduco un alimento, questo potrà interferire con le vie del digiuno, le potrà spegnere o addirittura le potrà potenziare o accendere; solo sapendo e comprendendo qual è l’interazione tra l’alimento e la via metabolica posso capire se ciò che sto introducendo si sposa al protocollo di digiuno intermittente, in fase di sottoalimentazione ovvero di digiuno per la dieta. Il digiuno può essere non solo simulato con l’utilizzo di alimenti in modo funzionale, ma addirittura può essere di fatto amplificato. L’argomento è molto affascinante e per un’ulteriore spiegazione possiamo prendere ad esempio l’esperimento di Draznin e colleghi che hanno fatto un esperimento con 4 tipi di diete diverse:
Alimenti e supplementi funzionali al digiuno intermittente: cosa mangiare Ma veniamo a cose più pratiche. Se vi state chiedendo cosa mangiare durante il digiuno intermittente, se sia meglio fare una colazione abbondante o una cena oppure quanto debba essere la quota di proteine ingerita, ora cercherò di darvi tutte le risposte. Olio di cocco, acido alfa lipoico (ALA), epigallocatechin gallato (EGCG), cannella, pepe nero, aceto, allina, vanidil solfato, cromo polinicotinato, sono tutti degli induttori, simulatori, potenziatori del digiuno. Il che significa che mangiare olio di cocco durante il digiuno, non lo “interrompe”, ma lo potenzia; se assumete EGCG o ALA o qualsiasi altra sostanza in grado di agire sui quei fattori “a sinistra”, non state facendo altro che potenziare gli effetti del digiuno. Caffeina e stimolanti? La caffeina direttamente e indirettamente aumenta la produzione della noradrenalina che con vari meccanismi, tra cui la mobilizzazione delle scorte di glucosio, porta all’aumento del rapporto tra ADP/ATP, che a sua volta attiva AMPK/PPAR, fattori che compaiono a sinistra nell’immagine discussa precedentemente. Quindi, caffeina e stimolanti sono altri potenziatori del digiuno. L’acqua e il digiuno idrico Che effetto ha l’acqua? Troppe volte il suo effetto metabolico viene trascurato. Anche a livello di digiuno l’acqua può essere utilizzata funzionalmente in diversi modi per potenziare gli effetti del digiuno. Essendo priva di nutrienti e calorie, e solo con qualche minerale come fa a tornarci utile? Esplorando il concetto di ipotensione ortostatica ci può aiutare a fare chiarezza. L’ipotensione ortostatica è una condizione in cui, passando da clinostatismo (sdraiati) a ortostatismo (in piedi) si avvertono capogiri e/o nausee dovuti a un abbassamento pressorio che non dovrebbe verificarsi. Uno dei modi non farmacologici per gestirla è l’ingestione di boli d’acqua, bere una quantità consistente d’acqua (> 500 mL) in pochi minuti determina un innalzamento fi pressione di pressorio di 10-20 mm Hg (3) mediato dalla noradrenalina. Ripensando a quanto detto sulla caffeina e ripensando all’immagine discussa, il cerchio si chiude. L’acqua può potenziare il digiuno. Considerazioni e conclusioni sui vari tipi di digiuno Quali conclusioni possiamo trarre? Ogni volta che ci interroghiamo su quali alimenti inserire o no nel protocollo di digiuno intermittente, in fase di sottoalimentazione bisogna far riferimento allo schema delle vie metaboliche precedentemente presentato e capire dove si colloca lo stimolo che vogliamo dare attraverso gli alimenti assunti e cosa farà “sentire” alla cellula. Se agisce a sinistra, non “interrompe” ma induce, simula o potenzia il vostro digiuno. Si deve tuttavia tenere presente delle interazioni tra la via catabolica e anabolica (sinistra e destra); ad esempio i BCAA (aminoacidi ramificati) stimolano direttamente le vie a destra, ma se assunti in restrizione energetica (nel caso di un digiuno per dimagrire) l’effetto netto non è quello di “interrompere il digiuno”. Questo si riflette anche in una certa libertà di scelta anche della tipologia di dieta da abbinare allo schema di digiuno intermittente, in base agli obiettivi e alle preferenze dei singoli si può associare digiuno intermittente e paleo dieta, digiuno intermittente e mediterranea, digiuno intermittente e dieta vegetariana, ecc. Osservando bene l’immagine vi accorgete, infatti, che la restrizione energetico-glucidica oltre ad agire sulle vie a sinistra, attivandole, tende a bloccare quelle a destra (guardate la linea interrotta che da AMPK a mTORC1). Per questa ragione un singolo fattore non può essere considerato solo anabolico o catabolico. Ad esempio il consumo di carne sebbene preso singolarmente a causa della sua composizione proteica può essere considerato un forte stimolo per le vie di “destra” in un contesto di restrizione glucidica e/o calorica il suo potenziale stimolo sulla proliferazione cellulare diviene molto ridotto. Giunti a conclusione sarebbe utile trarre una guida pratica da seguire durante la nostra esperienza di digiuno intermittente. Cosa possiamo dire? Che il digiuno intermittente possono farlo tutti, – compreso chi ha obbiettivi agonistici come in questo caso – ha sicuramente pro e contro che però possono essere gestiti e prevenuti seguendo alcune semplici principi, come è stato già spiegato all’interno dell’articolo. Laddove non sappiate se sia meglio un digiuno di 24 ore o di 16, o un digiuno intermittente con colazione abbondante o con la cena o per qualunque altro dubbio possiate avere, il mio consiglio è comunque sempre quello di rivolgersi a un esperto. Fonte: http://www.vivereinforma.it/digiuno-intermittente/ |
LA VITAMINA K
AMPK, UNA MOLECOLA INTERESSANTISSIMA SUCCHI DI FRUTTA FARE GLI ADDOMINALI FA DIMAGRIRE? COS'È E COME FUNZIONA IL DIGIUNO INTERMITTENTE LE SCELTE ALIMENTARI PER IL FABBISOGNO DI FERRO I BENEFICI DI ACQUA E LIMONE, TRA MITI E REALTÀ IL CORTISOLO – STRESS E ALIMENTAZIONE OLIO DI COCCO: MIGLIORA METABOLISMO E DIMAGRIMENTO FOOD REVIEW: SEMI DI CHIA FRUTTA SECCA ALLERGIA O INTOLLERANZA ALIMENTARE: DIFFERENZE E PECULIARITà WHEY PROTEIN I GRASSI CATTIVI IMPARIAMO A CONOSCERE I GRASSI ALLENAMENTO ED ESERCIZI ANTICELLULITE: TRA MITI E REALTÀ VITAMINA D: CONSIDERAZIONI SUL FABBISOGNO GIORNALIERO PROTEINE E DANNI RENALI: IPOTESI E REALTÀ IL MAGNESIO: UN MINERALE TRA I PIÙ "PREZIOSI" ASSUMERE COLESTEROLO FA VENIRE IL COLESTEROLO? |